Le correnti nella Democrazia Cristiana Per Donat-Cattin erano un’eredità dello Stato liberale La storia politica italiana sarebbe impossibile da raccontare se si prescindesse da elementi fondamentali quali sono state le articolazioni interne ai partiti. Per la Democrazia Cristiana questo significa affrontare il nodo delle correnti, un arcipelago di gruppi dentro il grande partito di ispirazione cattolica che ha funzionato come un contenitore di esperienze e sensibilità per i primi 60 anni della storia repubblicana. Essere democristiani significava essere anche fanfaniani, forlaniani, demitiani. Oppure dorotei, morotei, gavianei. Associati per appartenenze geografiche (la corrente del Golfo raggruppava i campani) o per fedeltà al proprio leader (i “colombotti” erano gli uomini di Emilio Colombo, i “goriacei” quelli di Giovanni Goria). Nel suo ultimo discorso ai gruppi parlamentari, Aldo Moro aveva ammonito: «Siamo importanti, ma lo siamo per l’amalgama che caratterizza la Democrazia Cristiana. Se non siamo declinati è perché siamo tutte queste cose insieme». «La Dc», aveva scritto Taviani, «non è una federazione, è una confederazione di correnti». Alla Rai, quando il termine aveva assunto un’inclinazione meno positiva, ordinavano di chiamarle “componenti”. Eppure già al congresso di Firenze del 1959 la divisione era stata talmente digerita che i vari leader si erano presentati davanti alle telecamere della televisione di Stato dichiarando la corrente di provenienza: Iniziativa, Primavera, Rinnovamento, … Di quei pochi che non si erano accasati lo speaker riferiva in modo asettico: «Ha dichiarato di non appartenere a nessuna corrente…». Negli anni ’60 si sviluppò notevolmente l’attività convegnistica, obbligando i cronisti politici a spostarsi da un paese all’altro (Sirmione, Chianciano, Lavarone, tutte località termali) e a consultare le diverse agenzie (Radar, Progetto, Notizie parlamentari). Ogni gruppo aveva la sua sede, il suo organo informativo, i suoi canali di finanziamento. La vita interna del partito condizionava le sorti dell’Italia: fondamentale era calcolare il peso dei raggruppamenti a partire dalle percentuali congressuali, in ultimo determinate dal numero delle tessere. Chiunque si avvicinasse alla Dc, doveva fare i conti con il fenomeno del correntismo. Emblematico è il caso della parabola degli esterni, ovvero di quegli esponenti del mondo cattolico, delle organizzazioni sociali, del mondo industriale o accademico che vennero coinvolti ogniqualvolta il partito diede segnali di crisi. Nel 1981 furono protagonisti di una famosa assemblea, con Scoppola e la Lega democratica e Formigoni e il Movimento popolare in prima linea per dare alla Dc un volto nuovo. Richiesero in prima battuta di sciogliere le correnti e aprire il partito alla società civile. Ma al congresso successivo diventarono anche loro una corrente. Secondo Donat-Cattin per il rinnovamento della Dc era essenziale il superamento del correntismo. Nei primi anni ’80 egli fu infatti il primo a sciogliere la propria. Ma fu anche il solo. Riconobbe poi che le correnti non erano il male peggiore, in quanto la stessa Dc le aveva «ereditate dallo Stato liberale, dove ogni notabile aveva la sua». Se nel panorama storiografico tardano a sorgere ricostruzioni critiche della vicenda democristiana, ciò è dovuto anche alla difficoltà di descrivere in modo puntuale l’articolazione delle sue correnti.
Alessandro Parola
17 maggio 2011 |