di Dario Lindi - 30 gennaio 2014
La storia dell'immigrazione a Torino quella che fece notizia dal 1955 al 1969, oggi, in tempi di Fiat che fa le mosse di chi vuole andarsene, può sembrare più una pagina di nostalgia che uno sguardo al futuro di una città che vuole ancora sopravvivere. E invece porta con sé un carico di interrogativi e di ammonimenti che valgono anche in tempi di crisi e di nuove e più complesse immigrazioni.
Mercoledì 22 gennaio l'Istituto per la memoria e la cultura del lavoro e dei diritti sociali, ha presentato il volume “Da Porta Nuova a Corso Traiano” di Michelangela Di Giacomo, una ricercatrice che ha collaborato per anni con diversi Centri studi torinesi ricostruendo la storia di tanti meridionali venuti in città per trovare lavoro. Erano, come dice il titolo quelle persone che, dopo un lungo viaggio in treno, arrivavano alla Stazione di Porta Nuova per poi finire nella zona periferica di Corso Traiano, luogo di raccolta di una nuova popolazione sovente ospitata in baracche, prefabbricati e luoghi di fortuna.
Il testo, con alle spalle un’attenta ricerca storiografica e l’ausilio di fonti di prima mano, analizza vari aspetti di quel periodo con riflessioni sul ruolo dei sindacati e dei partiti, sulla Torino di quegli anni, le sue intolleranze ma anche i servizi di assistenza offerti ai nuovi venuti: centinaia di migliaia di calabresi, campani e siciliani che trasformarono la realtà torinese. Erano giovani contadini, poveri, abituati a lavorare in campagna senza nessuna esperienza di lavoro in una fabbrica, che parlavano una lingua diversa da quella degli abitanti. Molti di essi stentarono anche a riconoscersi nel radicato ma un po’ chiuso movimento operaio del tempo.
Il libro racconta i mutamenti della cultura di massa a seguito dell’immigrazione e rappresenta un’originalità negli studi di settore, parziali e incompleti, fino ad oggi pubblicati, proprio per la completezza dell’indagine e per l’approfondimento delle tematiche riguardanti gli ex contadini che a fatica si inseriscono nella realtà industriale torinese.
Ma racconta anche gli sforzi, le incertezze, le difficoltà delle forze politiche e sociali a comprendere la nuova realtà che finiva per mettere in crisi una comunità che doveva fare i conti con fatti che l'avrebbero definitivamente cambiata. E che cambiò anche gli stessi partiti, i sindacati, le Acli che dovettero rispondere alle nuove necessità. E, magari nelle lotte sindacali del 62 e del 69, si trovarono a fare i conti con una militanza diversa da quella tradizionale, ma non certo meno combattiva, così da riuscire decisiva per l'esito dei conflitti sociali.
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