Altre vittime tra i lavoratori stranieri in Italia. Ci vogliono nuove regole e un nuovo tipo di accoglienza
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di Giorgio Aimetti - 3 dicembre 2013

L'ultima tragedia dell'immigrazione, che ha colpito questa volta persone che erano da tempo in Italia è l'ennesima testimonianza dell'incapacità del nostro paese di affrontare un'emergenza largamente prevista. Un’incapacità psicologica e culturale più che tecnica, messa in evidenza dal fatto che più di 25 anni fa il fenomeno dell'arrivo di nuove popolazioni dal Nord Africa e dall'est Europa era stato ampiamente previsto nei suoi aspetti legati alle difficoltà che stavano per investire quelle zone del mondo (in molti casi dovute agli squilibri economici troppo evidente, in altri all'aumento della vita media delle loro popolazioni e al conseguente boom demografico). Ad aggravare il fatto c’è stato poi il progressivo affermarsi da noi di una mentalità malthusiana, con il calo della popolazione locale che ha aperto spazi enormi ai lavoratori stranieri (badanti, infermieri o braccianti agricoli che venivano da oltre confine sono stati i primi segnali del fenomeno che ora investe altri settori).

Quelle circostanze erano già state denunciate da Donat-Cattin nel 1986, quando,  ministro della Sanità, aveva divulgato le statistiche attuariali in possesso di ogni assicuratore illustrando da un canto che entro 50 anni (2036: per intenderci, dopodomani), la popolazione locale si sarebbe ridotta, in assenza dell'arrivo di nuove popolazioni, a 35 milioni di abitanti, dall'altro spiegando che l'Italia avrebbe dovuto fornirsi, per il suo bene, di strutture sanitarie e sociali in grado di sopperire alle necessità dei nuovi venuti.

«Quello che l’Italia ha dato alla storia del mondo -aveva detto nel 1986 al convegno di Saint Vincent- non può farci trovare cancellati, di modo che di qui a due o trecento anni la gente, i ragazzi che vanno a scuola ascolterebbero: “Ecco, c’erano i Sumeri nella pianura del Tigri e dell’Eufrate e c’erano gli Italiani tra gli Appennini e la Alpi”. E lo dico con tutta l’anima anche a tanti che sono qui: è meglio avere figli, anche se ti fanno sanguinare il cuore. Perché questa è la vita, questo il contributo nel sacrificio, nell’amore, nella pena e nella gioia di vivere, che offre la continuità che dobbiamo dare al mondo, ai doni che da Dio abbiamo ricevuto».

Se il pubblico presente aveva applaudito commosso a quelle parole (e con Piccoli c'erano altre persone non facili alle lacrime), contro di lui si era scatenata l'ironia di giornali e benpensanti. Critiche anche da sinistra, da chi lo accusava di volere un paese da 8 milioni di baionette.

Oggi si sviluppano fenomeni di xenofobia; la popolazione immigrata, in assenza di una politica da più parti sollecitata, è in mano a quanti li aiutano, speculando sulla loro disperazione, a passare il mare. Rischiamo così di avere nel prossimo futuro una popolazione assoggettata alle mafie che controllano il passaggio del Mediterraneo, se non di gruppi che  sfruttano, per destabilizzare il paese, le miserie dei nuovi arrivati.

Se sia troppo tardi o sia possibile prevenire il peggio è da vedere. Che un paese debba programmare il fenomeno è indiscutibile. Che non si possa accettare l'ipotesi (multietnica) di ammettere leggi diverse per diverse comunità che convivono nella stessa città (la sharia e la poligamia per gli islamici, la deregulation economica per i cinesi, il multilinguismo per chissà chi altri) è facilmente comprensibile. Che la mano pesante e l'odio nei confronti dei nuovi venuti non sia decente né percorribile è comunque indiscutibile.

 
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