di Giorgio Aimetti
21 novembre 2014
L’annullamento delle sentenze di condanna da parte della Corte di Cassazione per la terribile storia dell’amianto è il segno della crescente difficoltà di giungere a sentenze incontrovertibili in tutti i processi nei quali esista anche solo un minimo di dubbio.
I diversi gradi di giudizio esistenti rischiano non solo di prolungare a tempi indefiniti vicende giudiziarie che in qualche modo si vorrebbe veder concluse, ma sono diventati anche una palestra di confronto tra differenti criteri che non da ieri rendono incerta la giurisprudenza del nostro paese.
La politica come al solito è chiamata a rispondere per l'imperfezione vera o presunta delle leggi. In questo caso però essa c’entra poco, se, con le stesse norme, giuste, ingiuste o riformabili, tre autorevoli uffici giudicanti sono arrivati a sentenze nettamente contraddittorie. Non è solo il caso di Eternit, è anche il caso di Ruby o di altri processi (si pensi a quello di Perugia) che vedono assoluzioni seguite da condanne e viceversa, e lasciano dubbi pesanti nel cittadino (e, nel caso di eventi che riguardano grandi multinazionali, scoraggiano ditte estere ad investire nel nostro paese).
Si vorrebbe un giudizio certo e si vorrebbe d’altra parte che le tante vittime e i loro familiari avessero giustizia.
Il premier Renzi ha detto che «Ci sono due modi per concepire il caso Eternit o la vicenda non è un reato o se lo è, ma è prescritto, vanno cambiate le regole sulla prescrizione perché non è possibile che le regole facciano saltare la domanda di giustizia». Quello del premier è un giudizio sacrosanto, se è la presa di coscienza di un politico che è chiamato a definire le norme su un tema che è già stato argomento di scontro parlamentare. Diventa un’affermazione rischiosa se la "domanda di giustizia", pur comprensibile, diventa il metro di giudizio per indirizzare la magistratura verso una deriva sommaria, che, insegna la storia, non è mai un buon modo di amministrare la legge.
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